
La vita di Abramo non è facile, è irta di difficoltà e di angosce. Abramo è, in fondo, uno di noi. Prima della sua vocazione potremmo immaginare in lui una duplice pena: certamente quella di avere una sposa sterile, Sara (la mancanza di figli era nell’antichità, specialmente quella biblica, la maggiore maledizione che si potesse immaginare); e forse il disagio di vivere immerso in un politeismo idolatra che lo lasciava insoddisfatto. La vocazione ad uscire da quella terra, dalla sua famiglia e dalla casa di suo padre chiede una lacerazione, ma in fondo dona una liberazione: spezza i vincoli che lo tenevano prigioniero di un culto profondamente errato, lo fa libero di adorare il suo Dio. Non rimedia però alla sterilità della sposa ormai anche anziana, benché fin dall’inizio risuoni una promessa che appare quasi irrisoria: «Farò di te un grande popolo…» (Gn 12,2). Ci vorranno 25 anni perché la promessa veda il compimento.
Una strada lunga
Quanta pazienza, Abramo! Il figlio della promessa non si vede, e non si può umanamente vedere. La strada di Abramo è un percorso ad ostacoli: prima Sara viene rapita dagli egiziani (cap. 12), poi una grossa tensione fra i servitori di Abramo e di Lot suo nipote porta lo scompiglio in famiglia (cap. 13), poi viene rapito Lot e Abramo lo deve recuperare (cap. 14)…
E intanto Abramo pensa a come risolvere i suoi problemi. È da notare che, per ovviare alla sterilità di Sara, il capofamiglia non ricorre alla soluzione più naturale in quei tempi di poligamia: prendersi un’altra moglie più giovane e presumibilmente feconda. No, a questo Abramo non ricorre di sua iniziativa, come sarebbe stato suo diritto secondo i costumi dell’epoca: ripudiare la sterile e sostituirla con un’altra, oppure prendersi una seconda sposa o una concubina.
La generosità sempre e verso tutti, anche andando contro i propri diritti, è una costante psicologica di questo personaggio, che ha tutte le caratteristiche di una figura reale anche se nessuna fonte storica ne parla al di fuori della Bibbia. Quindi, per rimediare alla mancanza di un figlio, Abramo non offende la sposa, ma pensa di provvedere con un’adozione; no, ribatte Dio, uno nato da lui sarà suo erede (cap. 15). Accetterà allora da parte della moglie Sara l’offerta dell’unione con una schiava, Agar, per procreare legalmente a nome suo una progenie al marito (cap. 16: l’utero in affitto e l’eterologa hanno origini antiche, anche se con mezzi rudimentali); nasce Ismaele figlio di Abramo; ma no, non sarà lui il figlio della promessa, sarà un bambino nato da Sara sterile e ormai novantenne (cap. 17).
La fede di Abramo

Abramo crede contro ogni speranza, e non possiamo pensare che questo gli sia stato facile. Le ricchezze esteriori, che non gli mancavano, non potevano compensare quel vuoto che si portava dentro fin dall’inizio della sua vita sponsale e che era forse stato acuito dalla promessa divina. Si potrebbe obiettare: bella forza, a lui Dio appariva di persona… Ma no, stiamo attenti: il linguaggio biblico non ci obbliga a pensare ad una «apparizione». I livelli di comunicazione di Dio con l’uomo, infatti, sono tre, nella Scrittura:
- Sensoriale (il soprannaturale si fa sensibile, e chiunque può vedere o sentire ciò che si rivela all’esterno)
- Percettivo (esternamente non si verifica alcunché; sono le facoltà interne, visive, uditive, a recepire una visione, o un suono)
- Intellettivo (la comunicazione non avviene con immagini o con suoni, ma solo con una esperienza intima). Questa è la modalità cui corrisponde normalmente l’espressione «Dio disse»… una voce di silenzio che parla nell’intimo.
Tutto questo parlare di Dio con Abramo, sostanzialmente, è riferibile ad una voce interiore che il patriarca sente e di cui si fida. Una mozione interiore, se vogliamo, senza quegli effetti speciali che ci farebbero dire: «Bella forza per lui obbedire a Dio, gli appariva di persona…». Abramo è, insomma, uno di noi, uno come noi che si è fidato straordinariamente di Dio.
Quando Dio sembra contraddirsi
La sua attesa è ricompensata: il figlio della promessa nasce, cresce (cap. 21), e… viene reclamato indietro. Una sofferenza chiesta, inflitta da Dio (cap. 22). Qui la sofferenza umana, in tutta la sua assurdità, tocca il culmine. L’episodio del sacrificio del figlio segna una tappa importante del concetto biblico di “prova” e dello sviluppo del tema della sofferenza del giusto. Abramo ne è il prototipo, tanto che è l’unico personaggio che l’Antico Testamento chiama “l’amico di Dio”. Servi tanti, ma amici… una posizione di privilegio, quindi, che ha molto da dirci.