Abramo credette al Signore… Anche Abramo conosce l’amarezza di una vana attesa, che ha cercato di colmare pensando alla possibilità dell’adozione di un suo servitore come erede. Questa risoluzione rispecchia l’esistenza in Abramo del dubbio nella promessa divina, e la ricerca di una soluzione umana. Ma il dubbio non si può risolvere razionalmente. Dio rinnova ad Abramo la sua promessa, ma egli deve credere solo nella sua Parola. E lo fa: Abramo credette al Signore che glielo accreditò come giustizia.
La fede e la giustizia di Abramo
Appare qui per la prima volta nella Bibbia il verbo credere (’aman, da cui il nostro Amen = è così!), con il senso di essere sicuro, ma anche di affidarsi a qualcuno. La fede di Abramo è fiducia e confidenza in Dio (fides qua creditur, la fede con cui si crede), non l’adesione ad un insieme di dottrine (fides quae creditur, le cose che vengono credute). È la fede in una persona che promette l’impossibile. Abramo sembra essersi arreso cercando una soluzione umana, e invece no, crede al Signore.
Da qui la giustizia di Abramo (tzedaqah), che non è la perfezione morale, l’esenzione da difetti, ma lo stato dell’uomo che cerca di mettersi nella giusta relazione con Dio, accettando di seguirne i tempi e i voleri. Se c’è questa ricerca, ci sarà anche la ricerca della giustizia con gli uomini, la dimensione orizzontale della carità fraterna.
L’alleanza
Questa relazione è interpretata secondo la categoria biblica dell’alleanza (berith), cioè del patto. Quello che noi chiamiamo stipulare l’alleanza nel testo ebraico viene detto karat berith, dal rito arcaico che in quell’occasione si compiva e che viene qui descritto: i contraenti tagliavano, dividevano a metà gli animali sacrificali distribuendo le metà le une di fronte alle altre, e vi passavano nel mezzo come a dire: mi accada come a questi animali se io verrò meno al patto! Da notare che a questo rito barbaro si assoggetta il Signore in persona, calandosi nella mentalità di Abramo e degli uomini di quell’epoca(la Rivelazione è incarnata nel tempo e nel luogo dell’uomo), mentre Abramo si limita ad assistere.
La tardemah
La tardemah (sopore, trance) che cade su Abramo sta a significare proprio che è Dio che opera, mentre l’uomo accoglie il dono, l’offerta gratuita di Dio, senza dare nulla in cambio. Indica che non è l’uomo a poter prendere l’iniziativa della salvezza o a poter manipolare Dio; l’esperienza proviene dal Signore stesso e per l’uomo è anche difficile il solo esprimerla. Il rapporto che Dio stabilisce con Abramo è di pura gratuità.
Ma l’operare di Dio non è un volo di angeli; è un compromettersi nella storia, un camminare nella sordida storia dell’uomo assumendola in tutto il suo peso e in tutta la sua pena. Tanto sta a significare il rito arcaico che Egli compie davanti ad Abramo.
La promessa divina si realizzerà infallibilmente, anche se delle difficoltà si frapporranno al suo compimento. Queste difficoltà storiche sono rappresentate dagli uccelli rapaci, simboli degli abitatori della terra di Canaan. I vv. 13-16 sono una parentesi (forse inserita dalla tradizione E) che con una profezia post factum proietta all’indietro, nella visione di Abramo, le vicende dell’Esodo. Che il capitolo 15 abbia un carattere composito è indicato anche dal fatto che la rivelazione divina ha un’ambientazione notturna (cfr. quel bellissimo «Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare» del v. 5), ma subito dopo si deve aspettare il calare del sole per compiere il rito del karath berith.
Comunque, un secondo passo di Abramo nel cammino della fede è compiuto: al suo primo obbedire a Dio è seguito questo rafforzarsi della fiducia in lui nonostante il dubbio, la paura della non realizzazione della promessa. Si può applicare prima di tutti ad Abramo questo famoso aforisma citato da Martin Luther King: «La paura bussò alla porta. La fede andò ad aprire. Non c’era nessuno».