L’abbandono di sé a Dio. Lewis parla di un altro effetto del dolore, addentrandosi in un terreno ancora più difficile: quello di una terza funzione che la sofferenza vi svolgerebbe. Lo scrittore aveva precedentemente analizzato il ruolo del dolore nel risveglio della coscienza (come megafono di Dio) e nell’abbattimento dell’illusione dell’autonomia. Adesso lo valuta come garanzia che la nostra volontà vuole obbedire a Dio e non ad altro.
L’articolo precedente QUI.
L’abbandono di sé a Dio comporta dolore
«Noi siamo eredi di un intero sistema di desideri che, se non contraddicono necessariamente la volontà di Dio, dopo secoli di autonomia usurpata, la ignorano però fermamente… Non possiamo sapere che agiamo per amor di Dio, o almeno primariamente per amor di Dio, a meno che il contenuto della nostra azione non sia contrario alle nostre inclinazioni o, in altre parole, non sia doloroso… La piena realizzazione dell’abbandono di noi stessi a Dio richiede pertanto dolore; questa azione, per essere perfetta, deve scaturire dalla pura volontà di obbedire in assenza o proprio a dispetto delle nostre inclinazioni. Che realizzare l’abbandono di sé sia impossibile facendo qualcosa che ci piace fare, lo so molto bene dalla mia esperienza presente…
La volontà umana diventa veramente creativa e veramente nostra quando è ceduta totalmente a Dio e questo è uno dei molti sensi in cui si dice che chi perde la sua anima la troverà. In tutte le altre azioni la nostra volontà è alimentata dalla natura, cioè da cose create che sono al di fuori di noi, dai desideri che il nostro organismo fisico e il nostro patrimonio genetico ci ispirano; quando agiamo mossi soltanto da noi stessi, cioè da Dio in noi – siamo collaboratori o strumenti vivi della creazione… Questa grande azione è stata avviata per noi, compiuta in vece nostra, esemplificata perché la imitassimo, e in modo straordinario comunicata a tutti i credenti da Cristo sul Calvario».
L’abbandono di sé a Dio nell’esperienza personale
«Non voglio dire che il dolore non sia doloroso. Il dolore fa male: è questo che significa la parola. Sto solo cercando di far vedere che la vecchia dottrina cristiana secondo la quale si deve raggiungere la perfezione mediante la sofferenza non è incredibile. Ma dimostrare che sia gradevole va al di là delle mie intenzioni…
La mia esperienza personale è un po’ così. Procedo lungo il sentiero della vita nel mio solito stato di soddisfazione, caducità ed empietà, assorto nel pensiero di un incontro piacevole con i miei amici per domani, o di un lavoro che stuzzica la mia vanità oggi, di una vacanza o di un nuovo libro, quando improvvisamente una fitta all’addome che potrebbe essere segno di una malattia grave, o un titolo di giornale che minaccia la distruzione generale [anche questo saggio è stato composto durante la seconda guerra mondiale] fa cadere tutto questo castello di carte.
Anatomia della sofferenza
Dapprima rimango sopraffatto e tutte le mie piccole felicità mi sembrano come giocattoli rotti. Ma poi, lentamente e con riluttanza, a poco a poco, cerco di entrare nello stato mentale in cui dovrei trovarmi sempre. Ricordo a me stesso che tutti questi giocattoli non erano stati fatti per possedere il mio cuore, che il mio vero bene è in un altro mondo e che il mio unico tesoro è Cristo. E forse, per grazia di Dio, ci riesco, e per un giorno o due divento una creatura consciamente dipendente da Dio, e che attinge la sua forza dalla fonte giusta.
Ma nel momento in cui la minaccia scompare, con tutto me stesso balzo indietro verso i miei giocattoli e sono persino ansioso, Dio mi perdoni, di bandire dalla mia mente l’unica cosa che mi aveva sostenuto quando ero minacciato, perché ora l’associo con l’infelicità di quei giorni. La terribile necessità della tribolazione non potrebbe essere più chiara: Dio mi ha avuto solo per quarantotto ore e solo al prezzo di togliermi tutto, ma basta che rinfoderi la spada per un momento e io mi comporto come un cucciolo quando ha finito di fare l’odiato bagno – mi scrollo l’acqua di dosso e corro via per recuperare la mia comoda sporcizia…
Ecco perché le tribolazioni non potranno cessare fino a quando Dio non ci vedrà rimodellati o non vedrà che non c’è più speranza di poterci rimodellare».
Direi che la visione che il giovane Lewis ha del dolore è pienamente ottimistica, anche se egli non è affatto indifferente alla sofferenza, anzi spontaneamente la aborrisce; ne esalta, si potrebbe arrivare a dire, la funzione per un pieno abbandono di sé a Dio.
Come non riconoscerlo, in un’ottica di fede? Ma la questione appare più complicata.